Tenendo conto dello stato dominate del tono dell'umore, i Disturbi Depressivi caratterizzati da un abbassamento stabile del tono dell'umore sono molto frequenti, e sono classificabili in tre tipi principali:
La depressione è un'emozione universalmente
vissuta da praticamente qualsiasi individuo in un dato periodo dell'esistenza.
Distinguere un sentimento "normale" di depressione da uno patologico, che richiede
un trattamento medico, è spesso problematico per chi non ha una formazione psichiatrica.
La stigmatizzazione e la disinformazione nella nostra cultura creano il diffuso
malinteso che una malattia mentale quale la depressione non sia una vera malattia,
ma un deficit del carattere che può essere superato con la forza di volontà.
Il Disturbo Distimico (o Distimia) ha
invece assunto il suo attuale significato solo di recente (cxliii).
Si tratta di una forma depressiva cronica di grado lieve-medio caratterizzata
da scarsa energia, bassa autostima, difficoltà di concentrarsi o di prendere
decisioni, incapacità a provare piacere (anedonia).
Nonostante l'importanza di questa sintomatologia, la Distimia non era neppure
menzionata in importanti e altrimenti completi trattati di psichiatria degli
anni '70 come quelli di Slater e Roth (cxliv),
Arieti (cxlv) o Redlich e Freedman (cxlvi).
La diagnosi differenziale tra Disturbo
Distimico e Disturbo Depressivo Maggiore
è particolarmente difficile, poiché i due disturbi condividono sintomi simili,
e le differenze in esordio, durata, persistenza e gravità non sono facilmente
valutabili retrospettivamente. Di solito il Disturbo Depressivo Maggiore è costituito
da due o più Episodi Depressivi Maggiori che possono essere distinti dal funzionamento
abituale dell'individuo, mentre il Disturbo Distimico è caratterizzato da sintomi
depressivi cronici, meno gravi, che sono stati presenti per diversi anni. Quando
il Disturbo Distimico ha una durata di molti anni, l'alterazione dell'umore
può non essere facilmente distinta dal funzionamento "abituale" dell'individuo.
Se l'esordio iniziale dei sintomi depressivi cronici è per gravità e numero
di sintomi sufficiente a soddisfare i criteri per un Episodio Depressivo Maggiore,
la diagnosi sarebbe Disturbo Depressivo Maggiore, Cronico (se i criteri risultano
ancora soddisfatti), o Disturbo Depressivo Maggiore, In Remissione Parziale
(se i criteri non risultano più soddisfatti). La diagnosi di Disturbo Distimico
può essere posta dopo un Disturbo Depressivo Maggiore solo se il Disturbo Distimico
era preesistente all'Episodio Depressivo Maggiore (nessun Episodio Depressivo
Maggiore durante i primi 2 anni di sintomi distimici), o se vi è stata una remissione
completa del Disturbo Depressivo Maggiore (durata almeno 2 mesi) prima dell'esordio
del Disturbo Distimico.
I sintomi depressivi possono essere una manifestazione associata comune dei
Disturbi Psicotici cronici (per es., Disturbo Schizoaffettivo, Schizofrenia,
Disturbo Delirante). Non si pone diagnosi separata di Disturbo Distimico se
i sintomi sono presenti soltanto durante il decorso di un Disturbo Psicotico
(incluse le fasi residue).
Il Disturbo Distimico deve essere distinto da un Disturbo dell'Umore Dovuto
ad una Condizione Medica Generale. La diagnosi è Disturbo dell'Umore Dovuto
ad una Condizione Medica Generale, con Manifestazioni Depressive, se si ritiene
che il disturbo dell'umore sia la conseguenza fisiologica diretta di una specifica
condizione medica generale, di solito cronica (per es., sclerosi multipla).
Questa determinazione si basa su storia, dati di laboratorio o esame fisico.
Se si ritiene che i sintomi depressivi non siano la conseguenza fisiologica
diretta di una condizione medica generale, si registra sull'Asse I il Disturbo
dell'Umore principale (per es., Disturbo Distimico), e sull'Asse III la condizione
medica generale (per es., diabete mellito). Questo sarebbe il caso, ad esempio,
se i sintomi depressivi sono considerati la conseguenza psicologica dell'essere
affetti da una condizione medica generale cronica, o se non vi è relazione eziologica
tra i sintomi depressivi e la condizione medica generale. Un Disturbo
dell'Umore Indotto da Sostanze si distingue dal Disturbo Distimico perché
si ritiene che una sostanza (per es., una droga di abuso, un medicamento, o
l'esposizione ad una tossina) sia eziologicamente correlata con il disturbo
dell'umore.
Spesso è evidente un coesistente disturbo di personalità. Quando le manifestazioni
dell'individuo soddisfano i criteri sia per il Disturbo Distimico che per un
Disturbo di Personalità, si pongono entrambe le diagnosi.
I criteri diagnostici per la ricerca dell'ICD-10
specificano che tre item da una lista di
11 sintomi (che include 5 dei 6 item del DSM-IV) devono accompagnare l'umore
depresso. Inoltre, l'ICD-10 limita gli Episodi Depressivi Maggiori a "nessuno
o molto pochi", e specifica che il Disturbo Distimico può seguire un episodio
depressivo senza un periodo di remissione completa.
Una recente indagine sulla popolazione
generale ha rivelato che per il 71% degli intervistati le malattie mentali
erano dovute a una debolezza emotiva; per il 65% erano dovute a un cattivo ambiente
familiare; per il 45% erano la conseguenza di una colpa dell'individuo e potevano
eliminarsi con la volontà; per il 43% le malattie mentali erano incurabili;
per il 35% esse erano la conseguenza di un comportamento deviato; e solo per
il 10% le malattie mentali avevano una base biologica o interessavano il cervello.
La stigmatizzazione e la disinformazione possono essere presenti anche a livello
di medicina generale, dove molti pazienti sia depressi che non depressi giungono
all'osservazione con sintomi inspiegabili dal punto di vista medico. "Somatizzazione"
è il termine utilizzato per la comparsa di sintomi fisici che esprimono un disturbo
emozionale, è può essere la principale ragione per una diagnosi errata di malattia
mentale da parte dei medici che si occupano di medicina generale. Molti pazienti
depressi con disturbi somatici non vengono considerati affetti da una patologia
reale o curabile e pertanto, dopo l'esclusione di una patologia organica, non
vengono sottoposti a terapia per un disturbo mentale. In realtà però la maggior
parte dei pazienti con sintomi somatici diffusi e inspiegabili che giungono
all'osservazione del medico di base ha una malattia mentale trattabile (ossia,
disturbi d'ansia o depressivi) o sta rispondendo ad un evento stressante. Tali
pazienti non hanno di norma un vero disturbo di somatizzazione nel quale "i
sintomi sono effettivamente tutti a livello mentale."
Date la frequenza e la curabilità della depressione, se vi sono pochi ma importanti
aspetti da puntualizzare, uno di questi è la necessità per il lettore di saper
riconoscere e trattare la depressione.
Criteri diagnostici accettati e standardizzati vengono impiegati per differenziare
la "normale" depressione causata da scontentezza o "da una giornata no" dai
disturbi dell'umore, detti anche disturbi affettivi. Tali criteri sono in continua
evoluzione, con le attuali nosologie descritte nel Manuale Statistico e Diagnostico
dei Disturbi Mentali (DSM-IV) per
gli USA e nella Classificazione Internazionale delle Patologie (ICD-10) per
gli altri Paesi.
Per lo scopo di questa trattazione, è sufficiente sapere che i disturbi affettivi
sono in realtà delle sindromi.
Vale a dire, essi sono dei gruppi di sintomi, uno solo dei quali è l'alterazione
dell'umore. Sicuramente la qualità dell'umore, l'entità del cambiamento dell'umore
dalla norma (su, mania; o giù, depressione) e la durata dell'umore alterato
sono tutte caratteristiche importanti di un disturbo affettivo. Inoltre, il
medico deve valutare le componenti vegetative quali sonno, appetito,
peso corporeo, e desiderio sessuale; le componenti cognitive quali stato
di attenzione, tolleranza alla frustrazione, memoria e convinzioni pessimistiche;
il controllo di impulsi quali suicidio e omicidio; le caratteristiche
comportamentali quali motivazione, piacere, interessi e affaticabilità;
e le componenti fisiche (o somatiche) quali cefalea, gastralgie e tensione
muscolare.
L'introduzione degli antidepressivi ha avuto un profondo impatto sull'evoluzione
dei criteri diagnostici dei disturbi affettivi. Prima degli anni cinquanta non
esisteva alcun antidepressivo efficace. Quando, negli anni cinquanta e sessanta,
sono stati fortuitamente scoperti i primi antidepressivi, è diventato importante
identificare quei pazienti che probabilmente avrebbero ottenuto beneficio da
tali farmaci. A quei tempi, i criteri diagnostici della depressione miravano
in parte a differenziare quei pazienti che avrebbero risposto ai nuovi antidepressivi
(gli antidepressivi triciclici e gli inibitori delle monoaminossidasi [MAOI])
da quelli che avrebbero risposto ai nuovi ansiolitici anch'essi introdotti nello
stesso periodo (le benzodiazepine).
Perciò, si è arrivati al concetto che la depressione maggiore poteva essere
clinicamente distinta dal disturbo d'ansia generalizzato (chiamato allora nevrosi
ansiosa) e che ogni condizione aveva dei trattamenti specifici. In parte, gli
iniziali criteri diagnostici erano impiegati nel tentativo di identificare una
"sindrome benzodiazepino-sensibile" che differiva da una "sindrome sensibile
agli antidepressivi triciclici".
Sebbene generalmente efficaci per la depressione, i primi antidepressivi non
erano efficaci in tutti i soggetti depressi. Questa osservazione si applica
a tutt'oggi, poiché solo 2 pazienti depressi su 3 risponderanno a un qualsiasi
antidepressivo. Negli anni settanta e ottanta, i criteri diagnostici per la
depressione hanno iniziato a focalizzarsi in parte sull'identificazione dei
pazienti depressi maggiormente responsivi a ciascuno dei trattamenti antidepressivi
resisi disponibili. Per esempio, il litio è risultato efficace per il sottotipo
diagnostico di disturbo maniaco-depressivo e proprio in quegli anni è stato
introdotto nella pratica clinica.
Durante questo periodo si è giunti all'idea che vi potessero essere due sottogruppi
di depressioni unipolari, di cui uno, a differenza dell'altro, particolarmente
sensibile agli antidepressivi. È stato ipotizzato che il primo gruppo fosse
costituito da una grave forma clinica melanconica di depressione che aveva una
base biologica, un'elevata incidenza familiare, che era di natura episodica
e che presumibilmente avrebbe risposto agli antidepressivi triciclici e ai MAOI.
In opposizione a questa, esisteva una seconda forma di depressione ritenuta
di origine nevrotica e caratteriale, meno grave ma ad andamento cronico, non
particolarmente sensibile agli antidepressivi e presumibilmente controllabile
con la psicoterapia.
La ricerca di marker biologici (come il test di soppressione con desametasone)
per un certo tipo di depressione su base biologica e che si presume sensibile
al trattamento antidepressivo è stata sinora deludente. Varie teorie e ipotesi
sono ancora in auge e verranno discusse più oltre. Tuttavia, non è ancora possibile
predire chi risponderà o meno a un dato farmaco antidepressivo. Ciò che attualmente
si sa è che le diverse caratteristiche cliniche della depressione non sono particolarmente
utili per differenziare i pazienti responder da quelli non responder e che esse
sono prive di ogni utilità diagnostica negli anni novanta. Queste includono
biologico vs non biologico; endogeno vs reattivo; melanconico vs neurotico;
acuto vs cronico; familiare vs non familiare; e altre ancora.
Negli anni novanta, i criteri diagnostici per la depressione hanno iniziato
ad essere applicati in misura maggiore per descrivere l'epidemiologia e il decorso
naturale della depressione cosicché gli effetti dei trattamenti potessero essere
meglio misurati. Le domande chiave sono: Quali sono i fattori
di rischio della depressione? Qual è l'incidenza
del disturbo depressivo maggiore? Quanti soggetti presentano tale condizione
al momento attuale e quanti durante la loro esistenza? I
soggetti con depressione vengono identificati e trattati e, se sì, in che
modo? E ancora, qual è il risultato del loro trattamento? Qual'è il decorso
naturale della loro depressione senza trattamento e quale l'impatto della terapia
sulla patologia? Quali sono i costi sommersi
della depressione non trattata?
Le risposte a tutte queste domande non sono ancora del tutto disponibili. Per
esempio, l'incidenza dei disturbi affettivi nella popolazione è approssimativamente
del 5-6% (più di 12 milioni di individui negli USA), ma solo circa un terzo
dei pazienti affetti è sotto trattamento. La depressione è una malattia socialmente
debilitante quanto la malattia coronarica e più debilitante del diabete mellito
o dell'artrite. Una percentuale che raggiunge il 15% dei pazienti gravemente
depressi alla fine compirà un suicidio.
I tentativi di suicidio sono circa
10 su 100 pazienti depressi per anno. Negli USA, per esempio, in un anno si
registrano approssimativamente 300.000 tentativi di suicidio e 30.000 suicidi
portati a termine, la maggior parte dei quali, se non la totalità, associata
a depressione.
Le conclusioni sono impressionanti: la depressione è una malattia comune, debilitante,
potenzialmente fatale, che può essere curata con successo, ma che di solito
non viene trattata. Sono in corso tentativi, da parte delle organizzazioni pubbliche,
per identificare tali casi e per trattarli efficacemente.
Sino a poco tempo fa non si conosceva molto sul decorso
naturale della depressione
in assenza di trattamento. Si ritiene attualmente che la maggior parte degli
episodi depressivi non trattati duri da 6 a 24 mesi. Forse solo nel 5-10% dei
casi non trattati gli episodi continuano per più di 2 anni.
Vengono impiegati quattro termini per descrivere lo stato clinico dei pazienti
depressi nel tempo. Questi sono le cosiddette "quattro R": remissione, ripresa
funzionale (guarigione), ricaduta e recidiva. Essi vengono spesso confusi. I
termini "remissione" e "ripresa funzionale" indicano ambedue che un paziente
depresso ha avuto almeno un 50% di riduzione dei sintomi, come evidenziato dai
test psicometrici standard (Hamilton Depression Scale). Ciò generalmente corrisponde
anche a un punteggio clinico globale in cui il paziente è abbastanza migliorato
o molto migliorato (non semplicemente lievemente migliorato). Talvolta il termine
"remissione" viene interscambiato con "guarigione". Tuttavia, remissione si
riferisce propriamente a un miglioramento che è durato meno di 2 mesi, mentre
guarigione a un miglioramento che è durato più di 2 mesi.
Il termine "ricaduta"
indica il ripresentarsi di un episodio depressivo durante i 2 mesi di miglioramento.
Quindi la "ricaduta" compare durante la "remissione" e prima della "guarigione".
Per contro, se un episodio di depressione si verifica dopo 2 mesi di miglioramento,
esso viene detto "recidiva
".
Quindi la "recidiva" compare dopo la "guarigione".
Studi di follow-up
di pazienti depressi dopo 1 anno mostrano che approssimativamente il 40% ha
ancora la stessa diagnosi, il 40% non ha alcuna diagnosi e il restante 20% recupera
parzialmente o sviluppa una diagnosi di distimia. La distimia è una forma di
depressione lieve ma cronica che dura per più di 2 anni. Essa può rappresentare
uno stato relativamente stabile e non remittente di depressione di grado lieve,
oppure può indicare uno stato di guarigione parziale da un episodio di disturbo
depressivo maggiore. Quando gli episodi depressivi maggiori si sovrappongono
alla distimia, la condizione risultante è talvolta detta "depressione
doppia
"
e può spiegare molti casi con scarsa guarigione tra gli episodi depressivi.
Le linee guida per il trattamento a lungo termine dei pazienti con antidepressivi
sono ancora in evoluzione, poiché i primi studi con tali farmaci hanno interessato
solo il trattamento a breve termine di singoli episodi depressivi, e solo recentemente
vi è stato il diffuso riconoscimento della cronicità e dell'elevato tasso di
recidive del disturbo depressivo maggiore. Di conseguenza, l'attuale trattamento
enfatizza il fatto che gli antidepressivi dovrebbero essere impiegati non solo
per trattare gli episodi acuti, ma anche per tentare di prevenire i futuri episodi
della malattia.
Stanno aumentando i trattamenti che cercano di ottenere la completa remissione
dei sintomi, poiché gli studi in cui è stata ottenuta una guarigione appena
parziale suggeriscono che, in tali casi, la probabilità di un episodio successivo
è aumentata e che continuerà ad esservi una scarsa o parziale guarigione nei
successivi episodi di depressione maggiore. Gli studi suggeriscono inoltre che
il trattamento per il disturbo depressivo maggiore è più efficace all'inizio
dell'episodio, prima che esso diventi cronico o recidivante. Questo è un aspetto
oggi emergente per molti disturbi psichiatrici: cioè, che sintomi incontrollati
possono indicare la persistenza di alcuni meccanismi fisiopatologici in atto
nel cervello i quali, se non vengono trattati, possono determinare un peggioramento
della malattia.
La depressione può causare depressione. La depressione può pertanto avere un
effetto neuropatologico di lunga durata o irreversibile sul cervello; se tale
effetto progredisce, il trattamento risulterà meno efficace rispetto a un trattamento
sintomatologico iniziato all'esordio del decorso.
Gli studi con i farmaci antidepressivi tradizionalmente durano da 4 a 8 settimane.
L'inizio dell'azione di tutti gli antidepressivi conosciuti richiede almento
2-4 settimane, mentre l'inizio dell'attività terapeutica delle benzodiazepine
nel trattamento dell'ansia è spesso più precoce. Oltre a questa nozione di un
ritardato inizio d'azione degli antidepressivi, tuttavia, gli effetti
del trattamento
su un paziente depresso dopo il primo o il secondo mese di terapia sono stati
studiati solo recentemente. Si sa da lungo tempo che due su tre soggetti depressi
"rispondono" (miglioramento del 50% o più) dopo un mese o due di trattamento
con un qualsiasi agente antidepressivo. È interessante notare che uno su tre
soggetti depressi risponde al placebo
.
Se il trattamento antidepressivo viene interrotto
entro il primo anno dopo la remissione,
vi è una probabilità di circa il 50% che il paziente vada incontro ad un successivo
episodio di depressione maggiore. Tuttavia, se
la terapia antidepressiva viene continuata per un anno dopo la remissione
,
tale probabilità si abbassa al 10-15%. Le attuali linee guida terapeutiche raccomandano
pertanto di trattare con un antidepressivo i pazienti al loro primo episodio
di depressione maggiore sino alla remissione, e successivamente di continuare
il trattamento per altri 6-12 mesi. Per i pazienti con multipli episodi pregressi
di depressione maggiore o con una risposta inadeguata al trattamento, non vi
sono ancora linee guida chiare per la durata del trattamento. Tuttavia, i tassi
di recidiva possono essere anche maggiori in tali soggetti; di conseguenza,
in casi selezionati, è possibile che sia necessario un trattamento della durata
superiore all'anno o addirittura di durata indefinita, sino a quando, dalle
ricerche future, non emergeranno linee guida più chiare.
Sebbene numerosi antidepressivi siano stati in grado di ridurre la ricaduta
da un episodio indice di depressione entro i primi 6-12 mesi, non è ancora certo
se gli antidepressivi possono continuare a funzionare nella profilassi contro
la recidiva per più di 1 anno di terapia. Tali studi sono attualmente in corso,
ma appare già prudente considerare la continuazione a lungo termine degli antidepressivi
in coloro che hanno avuto diversi episodi di depressione e che rispondono bene
ai farmaci antidepressivi quando sotto trattamento.
In termini di dosaggio da utilizzare nel trattamento a lungo termine per la
prevenzione delle ricadute e delle recidive della depressione, una delle regole
in clinica è stata che, per la terapia di mantenimento di durata indeterminata,
la dose di antidepressivo impiegata nel trattamento iniziale per un paziente
ospedaliero poteva essere ridotta della metà nel paziente ambulatoriale. Questo
approccio non è mai stato validato da studi clinici controllati ed è ormai sorpassato
dai risultati di nuovi studi con antidepressivi che mostrano che la dose impiegata
per indurre la remissione è la stessa richiesta per mantenerla.
Le linee guida per il trattamento cronico stanno quindi iniziando a evolversi
per i pazienti che rispondono bene ad un trattamento acuto con antidepressivi.
Ma cosa accade a quelli che non rispondono per niente agli antidepressivi (i
cosiddetti pazienti "refrattari al trattamento") o quelli che sono "non responder"
(ossia, quelli che non presentano una remissione completa, o che hanno una riduzione
dei sintomi inferiore al 50% o che migliorano solo lievemente e in modo non
soddisfacente)? Sfortunatamente, i pazienti refrattari e non responder non vengono
adeguatamente studiati, essendovi per loro linee guida terapeutiche non chiare
e spesso risultati inadeguati. In pratica, i trattamenti per i pazienti depressi
refrattari o non responder sono solitamente organizzati mediante numerosi algoritmi
di vario tipo che implicano in prima istanza una sequenza di antidepressivi
e quindi conbinazioni di antidepressivi. I diversi algoritmi per l'impiego degli
antidepressivi nei pazienti refrattari e non responder si sono sviluppati più
su base aneddotica che da studi sistematici negli anni e verranno discussi nel
prossimo capitolo. Tuttavia, negli USA non esiste alcun protocollo approvato
dalla FDA (Food and Drug Administration) per l'impiego degli antidepressivi
in ambedue questi gruppi di pazienti.
In sintesi, la storia naturale della depressione indica che si tratta di una
patologia che dura per tutta la vita, che probabilmente ricompare entro diversi
mesi dall'episodio principale, specialmente se il trattamento antidepressivo
viene interrotto, e che è soggetta a multiple recidive che possono essere prevenute
grazie a un trattamento a lungo termine con antidepressivi.
La prima e maggiore teoria sull'eziologia biologica della depressione
ipotizzava che la depressione fosse dovuta a un deficit dei neurotrasmettitori
monoaminergici, specialmente NE
e 5-HT. Le sue evidenze erano
piuttosto semplicistiche. Certi farmaci che provocavano la deplezione di questi
neurotrasmettitori potevano indurre depressione, e gli antidepressivi conosciuti
a quei tempi (i triciclici e i MAOI)
avevano azioni farmacologiche che aumentavano questi neurotrasmettitori. Pertanto,
l'idea era che le "normali" quantità di neurotrasmettitori monoaminergici venissero
in qualche modo ridotte, forse da un processo patologico sconosciuto, dallo
stress, o dai farmaci, determinando i sintomi della depressione. I MAOI aumentavano
i neurotrasmettitori, causando un miglioramento della depressione dovuto all'inibizione
delle MAO. Anche gli antidepressivi triciclici aumentavano i neurotrasmettitori,
determinando un miglioramento della depressione dovuto al blocco dei trasportatori
delle monoamine.
Per capire questa ipotesi, è necessario in primo luogo capire il normale funzionamento
farmacologico dei neuroni monoaminergici. I prinicipali neurotrasmettitori monoaminergici
nel cervello sono le catecolamine NE e DA, e l'indolamina 5-HT.
I neuroni noradrenergici utilizzano come proprio neurotrasmettitore la noradrenalina.
Per il neurone noradrenergico, questo processo inizia con la sintesi
della noradrenalina. L'aminoacido precursore della NE, la tirosina, viene trasportato
all'interno del sistema nervoso dal circolo ematico attraverso una pompa di
trasporto attivo. Una volta all'interno del neurone, la tirosina viene trasformata
mediante tre enzimi in sequenza: il primo è la tirosina idrossilasi (TOH), l'enzima
più importante e limitante la regolazione della sintesi della NE. La tirosina
idrossilasi converte l'aminoacido tirosina in DOPA. A questo punto agisce il
secondo enzima, la DOPA decarbossilasi (DDC), che trasforma la DOPA in DA. La
DA di per sé è un neurotrasmettitore in alcuni neuroni. Tuttavia, per i neuroni
NE, la DA è soltanto il precursore della NE. Infatti, il terzo e ultimo enzima
della sintesi di NE, la dopamina beta idrossilasi (DBH), converte la DA in NE.
La NE viene quindi accumulata in pacchetti sinaptici detti vescicole sino a
quando non viene rilasciata da un impulso nervoso.
La NE non viene solo sintetizzata dagli enzimi, ma può anche essere distrutta
dagli enzimi (catabolismo della NE).
I due principali enzimi catalitici agiscono sulla NE per trasformarla in metaboliti
inattivi. Il primo è la MAO, che è localizzata sia nei mitocondri del neurone
presinaptico che altrove. Il secondo è la catecol-O-metiltransferasi (COMT),
che si ritiene sia localizzata soprattutto al di fuori della terminazione presinaptica.L'azione
della NE può essere interrotta non solo dagli enzimi che la distruggono, ma
anche ingegnosamente da una pompa di trasporto specifica che la rimuove dalla
sinapsi senza distruggerla. Infatti, la NE così inattivata può essere riutilizzata
più tardi in un successivo impulso nervoso. La pompa che interrompe l'attività
sinaptica della NE viene talvolta chiamata "trasportatore per la NE" o "pompa
per la ricattura della NE". Essa è selettiva per la NE e per nessun altro neurotrasmettitore.
Questo sistema di ricattura della NE fa parte dell'armamentario presinaptico,
dove agisce come un aspiratore che risucchia la NE al di fuori della sinapsi,
lontano dai recettori sinaptici, interrompendone la sua azione sinaptica. Una
volta all'interno del terminale presinaptico, la NE può essere ancora immagazzinata
per un successivo utilizzo in occasione di un altro impulso nervoso, oppure
può essere distrutta dagli enzimi che la catabolizzano.
Il neurone noradrenergico è regolato da una molteplicità di recettori per la
NE. I sottotipi classici di recettori NE sono stati classificati come alfa o
beta , a seconda della loro preferenza per una serie di agonisti o antagonisti.
Successivamente, i recettori per la NE sono stati suddivisi nei sottotipi alfa1
e alfa2, e beta1 e beta2. Più recentemente, i recettori adrenergici sono stati
ulteriormente suddivisi in base a differenze farmacologiche e molecolari.
Per una comprensione generale dei recettori NE, il lettore dovrebbe iniziare
con il conoscere i due recettori chiave: il recettore postsinaptico beta1 e
il recettore presinaptico alfa2. Vi sono inoltre i recettori postsinaptici beta2,
alfa1 e alfa2, come pure ulteriori sottotipi di recettori adrenergici, ma questi
per ora non verranno enfatizzati.
Il recettore presinaptico alfa2
è importante perché è un autorecettore. Vale a dire, quando il recettore presinaptico
alfa2 riconosce la NE sinaptica, blocca il rilascio di NE. Poiché tale recettore
è localizzato a livello della terminazione assonica, viene talvolta detto autorecettore
terminale. L'autorecettore presinaptico alfa2 agisce pertanto come un freno
per il neurone NE, conosciuto anche come segnale regolatorio a feedback negativo.
La stimolazione di questo recettore (cioè il premere sul freno) interrompe l'attività
elettrica del neurone. Questo probabilmente accade fisiologicamente per prevenire
un'iperattività elettrica del neurone NE, poiché esso può "autospegnersi" una
volta che l'attività è troppo elevata e l'autorecettore viene stimolato. Si
noti che i farmaci possono non solo simulare il naturale funzionamento del neurone
stimolando il recettore presinaptico alfa2, ma i farmaci che antagonizzano questo
stesso recettore avranno l'effetto di tagliare i cavi del freno e aumentare
il rilascio di NE.
Il recettore postsinaptico beta1 riconosce la NE liberata nella sinapsi e agisce
per attivare una cascata molecolare a livello del neurone postsinaptico, facendo
sì che la neurotrasmissione passi dal neurone presinaptico a quello postsinaptico.
I neuroni dopaminergici utilizzano come neurotrasmettitore la DA, che viene
sintetizzata
nelle terminazioni nervose dopaminergiche attraverso due dei tre enzimi che
sintetizzano anche la NE. Tuttavia, i neuroni DA mancano del terzo enzima, cioè
la dopamina beta idrossilasi, e quindi non possono convertire la DA in NE. È
pertanto la DA che viene immagazzinata e utilizzata come neurotrasmettitore.
Il neurone DA ha un trasportatore presinaptico (pompa per la ricattura) che
è specifico per la DA, ma che funziona analogamente a quello per la NE. Per
contro, gli stessi enzimi che distruggono la NE catabolizzano
anche la DA
(MAO e COMT).
Anche i recettori per la dopamina regolano la neurotrasmissione dopaminergica.
Esiste un gran numero di recettori dopaminergici, tra cui almeno cinque sottotipi
farmacologici e diverse isoforme molecolari. Forse il recettore più ampiamente
investigato è il recettore dopaminergico D2, che viene stimolato dagli agonisti
dopaminergici per il trattamento del morbo di Parkinson e bloccato dagli antagonisti
dopaminergici, neurolettici, per il trattamento della schizofrenia. I recettori
dopaminergici possono essere presinaptici, dove funzionano come regolazione
a feedback negativo, o postsinaptici, dove sono coinvolti nella neurotrasmissione
dal neurone presinaptico a quello postsinaptico.
Nel neurone 5-HT esistono enzimi, trasportatori e recettori analoghi. Tuttavia,
nei neuroni serotoninergici, per la sintesi
della serotonina
un diverso aminoacido, il triptofano, viene trasportato all'interno del cervello
dal plasma per essere utilizzato come precursore della 5-HT. Due enzimi di sintesi
convertono quindi il triptofano in serotonina: inizialmente la triptofano idrossilasi
converte il triptofano in 5-idrossitriptofano (5-HTP) e, successivamente, l'aminoacido
aromatico decarbossilasi trasforma il 5-HTP in 5-HT. Come la NE e la DA, anche
la 5-HT viene catabolizzata
dalla MAO e trasformata in metabolita inattivo. Anche il neurone 5-HT possiede
un trasportatore presinaptico selettivo per la serotonina conosciuto come trasportatore
per la serotonina, analogo al
trasportatore per la NE nei neuroni NE e a quello per la DA nei neuroni DA.
I sottotipi di recettori per il neurone serotoninergico si sono moltiplicati
molto velocemente, con almeno quattro principali categorie di recettori 5-HT,
ciascuna ulteriormente suddivisa in sottotipi in base alle proprietà farmacologiche
o molecolari. I recettori 5-HT sono un buon esempio di come la descrizione dei
recettori per i neurotrasmettitori sia in continua trasformazione e sia costantemente
rivista. Per una comprensione generale del neurone 5-HT, il lettore può iniziare
con il capire che vi sono due recettori chiave presinaptici (5-HT1A
e 5-HT1D)
e diversi recettori postsinaptici (5-HT1A,
5-HT1D, 5-HT2A, 5-HT2C, 5-HT3 e 5-HT4), il più importante dei quali è forse
il 5-HT2A, talvolta detto anche recettore 5-HT2.I recettori 5-HT presinaptici
sono autorecettori; essi percepiscono la presenza della 5-HT e causano un'interruzione
dell'ulteriore liberazione di 5-HT e dell'attività elettrica del neurone 5-HT.
Quando la 5-HT viene percepita a livello dei dendriti e del corpo cellulare,
ciò accade attraverso un recettore 5-HT1A, conosciuto anche come autorecettore
somatodendritico. Ne consegue un rallentamento del flusso elettrico neuronale
lungo il neurone serotoninergico. Quando la 5-HT viene percepita nella sinapsi
dai recettori 5-HT presinaptici, ciò accade attraverso un recettore 5-HT1D,
conosciuto anche come autorecettore terminale- analogo all'autorecettore alfa2
adrenergico della terminazione noradrenergica descritto precedentemente. Nel
caso dell'autorecettore 5-HT1D, la sua occupazione da parte della 5-HT determina
un blocco del rilascio del neurotrasmettitore. Al contrario, farmaci che bloccano
l'autorecettore 5-HT1D possono favorire la liberazione di 5-HT.
I recettori 5-HT postsinaptici quali i recettori 5-HT2A regolano la conversione
della liberazione di 5-HT dal neurone presinaptico in neurotrasmissione al neurone
postsinaptico. Il recettore 5-HT2 (5-HT2A) viene caratterizzato soprattutto
come un importante sottotipo di recettore 5-HT postsinaptico poiché esso è implicato
nel meccanismo d'azione degli antidepressivi. Tuttavia, si sta imparando sempre
di più sull'importanza dei recettori postsinaptici 5-HT1A e 5-HT2C, specialmente
per il meccanismo di vari farmaci che agiscono sui neuroni 5-HT. Anche questi
verranno discussi in maggior dettaglio più oltre.
I primi antidepressivi a essere scoperti derivavano da due classi di agenti:
gli antidepressivi triciclici (così chiamati poiché la loro struttura chimica
possiede tre anelli) e i MAOI (così chiamati perché inibiscono l'enzima catabolizzante
MAO). Quando gli antidepressivi triciclici
bloccano il trasportatore per la NE,
essi aumentano la disponibilità di questo neurotrasmettitore nella sinapsi,
poiché la pompa aspiratrice non può più spazzare via la NE dalla sinapsi. Quando
gli antidepressivi triciclici bloccano la
pompa per la DA
o quella per la 5-HT, essi aumentano similmente la disponibilità sinaptica rispettivamente
della DA o della 5-HT, e con lo stesso meccanismo. Quando i MAOI bloccano il
catabolismo di NE, DA, e 5-HT, essi innalzano i livelli di questi neurotrasmettitori.
Sin da quando negli anni sessanta venne riconosciuto che tutti gli antidepressivi
classici in un modo o nell'altro innalzavano NE, DA e 5-HT, l'idea in origine
fu che l'uno o l'altro di questi neurotrasmettitori, conosciuti chimicamente
come monoamine, potessero essere deficitari nella depressione. Nacque così l'"ipotesi
monoaminergica". Un grande sforzo venne effettuato specialmente negli anni sessanta
e settanta per identificare tali possibili deficit di neurotrasmettitori monoaminergici.
Sfortunatamente, questi sforzi hanno portato sinora a risultati misti e talvolta
confusi.
Alcuni studi suggeriscono che i metaboliti della NE sono ridotti in certi pazienti
depressi, ma tale reperto non è stato osservato uniformemente. Altri studi suggeriscono
che il metabolita della 5-HT, l'acido 5-idrossindolacetico (5-HIAA), è ridotto
nel fluido cerebrospinale (CSF) dei pazienti depressi. A un esame più attento,
tuttavia, bassi livelli di 5-HIAA nel CSF sono stati rilevati solo in alcuni
dei pazienti depressi, che tendono peraltro a identificarsi con tentativi violenti
di suicidio. Successivamente è stato inoltre riportato che i livelli di 5-HIAA
nel fluido cerebrospinale sono ridotti in altre popolazioni soggette a violenti
episodi di scarso controllo degli impulsi, ma che non erano depresse, vale a
dire in pazienti asociali con disturbi della personalità che erano dei criminali,
e in pazienti con disturbi borderline della personalità con comportamenti autodistruttivi.
Pertanto, bassi livelli di 5-HIAA nel CSF possono essere più strettamente legati
a problemi nel controllo degli impulsi, piuttosto che alla depressione.
Un altro problema con l'ipotesi monoaminergica è che determinati farmaci che
aumentano le concentrazioni di monoamine non sono degli antidepressivi (p.es.,
cocaina), e altri che non sono in grado di aumentare i livelli di monoamine
sono invece degli antidepressivi (p.es., iprindolo e mianserina). Forse la difficoltà
principale dell'ipotesi monoaminergica è che gli effetti degli antidepressivi
sui neurotrasmettitori sono temporalmente lontani dagli effetti degli stessi
farmaci sull'umore. Ossia, gli antidepressivi innalzano immediatamente i livelli
di monoamine, ma, come detto precedentemente, hanno un significativo ritardo
nell'inizio della loro azione terapeutica, che compare infatti più giorni o
diverse settimane dopo che essi hanno innalzato le monoamine. A causa di queste
e di altre difficoltà, il fulcro dell'ipotesi per l'eziologia della depressione
comincia a spostarsi dagli stessi neurotrasmettitori monoaminergici ai loro
recettori.
Questa teoria afferma che qualcosa sia alterato nei recettori per i principali
neurotrasmettitori monoaminergici. In accordo con questa teoria, un'anomalia
nel funzionamento dei recettori per i neurotrasmettitori monoaminergici porta
quindi alla depressione. Tale alterazione dei recettori per i neurotrasmettitori
può essere essa stessa dovuta a una deplezione di neurotrasmettitori monoaminergici.
La deplezione di neurotrasmettitori monoaminergici è già stata discussa come
tema principale dell'ipotesi monoaminergica della depressione. Secondo l'ipotesi
recettoriale della depressione, questo tema viene spostato di un ulteriore passo,
vale a dire, la deplezione del neurotrasmettitore
causa un'up-regulation
compensatoria dei recettori neurotrasmettitoriali postsinaptici.
Mancano in generale le evidenze dirette di questa ipotesi, ma studi autoptici
mostrano un aumentato numero di recettori 5-HT2 nella corteccia prefrontale
di pazienti che hanno commesso suicidio. Studi indiretti sul funzionamento dei
recettori nei pazienti con disturbo depressivo maggiore suggeriscono anormalità
dei vari recettori neurotrasmettitoriali quando vengono utilizzati test neuroendocrini
o tessuti periferici quali piastrine o linfociti. Le moderne tecniche molecolari
stanno esplorando le anomalie dell'espressione genica dei recettori neurotrasmettitoriali
e degli enzimi in famiglie con depressione, ma non hanno avuto ancora successo
nell'identificare alterazioni molecolari.