Capitolo 7
I DISTURBI DEPRESSIVI

7.1 DESCRIZIONE CLINICA
7.2 DIAGNOSI DIFFERENZIALE
 7.2.1 DISTIMIA E DISTURBO DEPRESSIVO MAGGIORE
 7.2.2 DISTIMIA E DISTURBO DELL'UMORE DOVUTO AD UNA CONDIZIONE MEDICA GENERALE
 7.2.3 DISTIMIA E DISTURBO DELLA PERSONALITÀ
 7.2.4 RELAZIONE CON I CRITERI DIAGNOSTICI PER LA RICERCA DELL'ICD-10
 7.2.5 DISTIMIA E SOMATIZZAZIONE
7.3 CRITERI DIAGNOSTICI
 7.3.1 SCOPERTA DEGLI ANTIDEPRESSIVI
7.4 RICERCA DEI SOTTOTIPI DI DEPRESSIONE
 7.4.1 EPIDEMIOLOGIA E DECORSO NATURALE
7.5 DECORSO A LUNGO TERMINE DELLA DEPRESSIONE
7.6 TRATTAMENTO A LUNGO TERMINE DELLA DEPRESSIONE
7.7 BASI BIOLOGICHE DELLA DEPRESSIONE
 7.7.1 IPOTESI MONOAMINERGICA
 7.7.2 NEURONI MONOAMINERGICI
  7.7.2.1 Neuroni noradrenergici.
  7.7.2.2 Neuroni dopaminergici.
  7.7.2.3 Neuroni serotoninergici.
7.8 ANTIDEPRESSIVI CLASSICI E IPOTESI MONOAMINERGICA
 7.8.1 IPOTESI RECETTORIALE DELLA DEPRESSIONE

7.1 DESCRIZIONE CLINICA

Tenendo conto dello stato dominate del tono dell'umore, i Disturbi Depressivi caratterizzati da un abbassamento stabile del tono dell'umore sono molto frequenti, e sono classificabili in tre tipi principali:

La depressione è un'emozione universalmente vissuta da praticamente qualsiasi individuo in un dato periodo dell'esistenza. Distinguere un sentimento "normale" di depressione da uno patologico, che richiede un trattamento medico, è spesso problematico per chi non ha una formazione psichiatrica. La stigmatizzazione e la disinformazione nella nostra cultura creano il diffuso malinteso che una malattia mentale quale la depressione non sia una vera malattia, ma un deficit del carattere che può essere superato con la forza di volontà.
Il Disturbo Distimico (o Distimia) ha invece assunto il suo attuale significato solo di recente (cxliii). Si tratta di una forma depressiva cronica di grado lieve-medio caratterizzata da scarsa energia, bassa autostima, difficoltà di concentrarsi o di prendere decisioni, incapacità a provare piacere (anedonia).
Nonostante l'importanza di questa sintomatologia, la Distimia non era neppure menzionata in importanti e altrimenti completi trattati di psichiatria degli anni '70 come quelli di Slater e Roth (cxliv), Arieti (cxlv) o Redlich e Freedman (cxlvi).  torna a inizio capitolo

7.2 DIAGNOSI DIFFERENZIALE

7.2.1 DISTIMIA E DISTURBO DEPRESSIVO MAGGIORE

La diagnosi differenziale tra Disturbo Distimico e Disturbo Depressivo Maggiore è particolarmente difficile, poiché i due disturbi condividono sintomi simili, e le differenze in esordio, durata, persistenza e gravità non sono facilmente valutabili retrospettivamente. Di solito il Disturbo Depressivo Maggiore è costituito da due o più Episodi Depressivi Maggiori che possono essere distinti dal funzionamento abituale dell'individuo, mentre il Disturbo Distimico è caratterizzato da sintomi depressivi cronici, meno gravi, che sono stati presenti per diversi anni. Quando il Disturbo Distimico ha una durata di molti anni, l'alterazione dell'umore può non essere facilmente distinta dal funzionamento "abituale" dell'individuo. Se l'esordio iniziale dei sintomi depressivi cronici è per gravità e numero di sintomi sufficiente a soddisfare i criteri per un Episodio Depressivo Maggiore, la diagnosi sarebbe Disturbo Depressivo Maggiore, Cronico (se i criteri risultano ancora soddisfatti), o Disturbo Depressivo Maggiore, In Remissione Parziale (se i criteri non risultano più soddisfatti). La diagnosi di Disturbo Distimico può essere posta dopo un Disturbo Depressivo Maggiore solo se il Disturbo Distimico era preesistente all'Episodio Depressivo Maggiore (nessun Episodio Depressivo Maggiore durante i primi 2 anni di sintomi distimici), o se vi è stata una remissione completa del Disturbo Depressivo Maggiore (durata almeno 2 mesi) prima dell'esordio del Disturbo Distimico.  torna a inizio capitolo

7.2.2 DISTIMIA E DISTURBO DELL'UMORE DOVUTO AD UNA CONDIZIONE MEDICA GENERALE

I sintomi depressivi possono essere una manifestazione associata comune dei Disturbi Psicotici cronici (per es., Disturbo Schizoaffettivo, Schizofrenia, Disturbo Delirante). Non si pone diagnosi separata di Disturbo Distimico se i sintomi sono presenti soltanto durante il decorso di un Disturbo Psicotico (incluse le fasi residue).
Il Disturbo Distimico deve essere distinto da un Disturbo dell'Umore Dovuto ad una Condizione Medica Generale. La diagnosi è Disturbo dell'Umore Dovuto ad una Condizione Medica Generale, con Manifestazioni Depressive, se si ritiene che il disturbo dell'umore sia la conseguenza fisiologica diretta di una specifica condizione medica generale, di solito cronica (per es., sclerosi multipla). Questa determinazione si basa su storia, dati di laboratorio o esame fisico. Se si ritiene che i sintomi depressivi non siano la conseguenza fisiologica diretta di una condizione medica generale, si registra sull'Asse I il Disturbo dell'Umore principale (per es., Disturbo Distimico), e sull'Asse III la condizione medica generale (per es., diabete mellito). Questo sarebbe il caso, ad esempio, se i sintomi depressivi sono considerati la conseguenza psicologica dell'essere affetti da una condizione medica generale cronica, o se non vi è relazione eziologica tra i sintomi depressivi e la condizione medica generale. Un Disturbo dell'Umore Indotto da Sostanze si distingue dal Disturbo Distimico perché si ritiene che una sostanza (per es., una droga di abuso, un medicamento, o l'esposizione ad una tossina) sia eziologicamente correlata con il disturbo dell'umore.  torna a inizio capitolo

7.2.3 DISTIMIA E DISTURBO DELLA PERSONALITÀ

Spesso è evidente un coesistente disturbo di personalità. Quando le manifestazioni dell'individuo soddisfano i criteri sia per il Disturbo Distimico che per un Disturbo di Personalità, si pongono entrambe le diagnosi.  torna a inizio capitolo

7.2.4 RELAZIONE CON I CRITERI DIAGNOSTICI PER LA RICERCA DELL'ICD-10

I criteri diagnostici per la ricerca dell'ICD-10 specificano che tre item da una lista di 11 sintomi (che include 5 dei 6 item del DSM-IV) devono accompagnare l'umore depresso. Inoltre, l'ICD-10 limita gli Episodi Depressivi Maggiori a "nessuno o molto pochi", e specifica che il Disturbo Distimico può seguire un episodio depressivo senza un periodo di remissione completa.  torna a inizio capitolo

7.2.5 DISTIMIA E SOMATIZZAZIONE

Una recente indagine sulla popolazione generale ha rivelato che per il 71% degli intervistati le malattie mentali erano dovute a una debolezza emotiva; per il 65% erano dovute a un cattivo ambiente familiare; per il 45% erano la conseguenza di una colpa dell'individuo e potevano eliminarsi con la volontà; per il 43% le malattie mentali erano incurabili; per il 35% esse erano la conseguenza di un comportamento deviato; e solo per il 10% le malattie mentali avevano una base biologica o interessavano il cervello.
La stigmatizzazione e la disinformazione possono essere presenti anche a livello di medicina generale, dove molti pazienti sia depressi che non depressi giungono all'osservazione con sintomi inspiegabili dal punto di vista medico. "Somatizzazione" è il termine utilizzato per la comparsa di sintomi fisici che esprimono un disturbo emozionale, è può essere la principale ragione per una diagnosi errata di malattia mentale da parte dei medici che si occupano di medicina generale. Molti pazienti depressi con disturbi somatici non vengono considerati affetti da una patologia reale o curabile e pertanto, dopo l'esclusione di una patologia organica, non vengono sottoposti a terapia per un disturbo mentale. In realtà però la maggior parte dei pazienti con sintomi somatici diffusi e inspiegabili che giungono all'osservazione del medico di base ha una malattia mentale trattabile (ossia, disturbi d'ansia o depressivi) o sta rispondendo ad un evento stressante. Tali pazienti non hanno di norma un vero disturbo di somatizzazione nel quale "i sintomi sono effettivamente tutti a livello mentale."
Date la frequenza e la curabilità della depressione, se vi sono pochi ma importanti aspetti da puntualizzare, uno di questi è la necessità per il lettore di saper riconoscere e trattare la depressione.  torna a inizio capitolo

7.3 CRITERI DIAGNOSTICI

Criteri diagnostici accettati e standardizzati vengono impiegati per differenziare la "normale" depressione causata da scontentezza o "da una giornata no" dai disturbi dell'umore, detti anche disturbi affettivi. Tali criteri sono in continua evoluzione, con le attuali nosologie descritte nel Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-IV) per gli USA e nella Classificazione Internazionale delle Patologie (ICD-10) per gli altri Paesi.
Per lo scopo di questa trattazione, è sufficiente sapere che i disturbi affettivi sono in realtà delle sindromi. Vale a dire, essi sono dei gruppi di sintomi, uno solo dei quali è l'alterazione dell'umore. Sicuramente la qualità dell'umore, l'entità del cambiamento dell'umore dalla norma (su, mania; o giù, depressione) e la durata dell'umore alterato sono tutte caratteristiche importanti di un disturbo affettivo. Inoltre, il medico deve valutare le componenti vegetative quali sonno, appetito, peso corporeo, e desiderio sessuale; le componenti cognitive quali stato di attenzione, tolleranza alla frustrazione, memoria e convinzioni pessimistiche; il controllo di impulsi quali suicidio e omicidio; le caratteristiche comportamentali quali motivazione, piacere, interessi e affaticabilità; e le componenti fisiche (o somatiche) quali cefalea, gastralgie e tensione muscolare.  torna a inizio capitolo

7.3.1 SCOPERTA DEGLI ANTIDEPRESSIVI

L'introduzione degli antidepressivi ha avuto un profondo impatto sull'evoluzione dei criteri diagnostici dei disturbi affettivi. Prima degli anni cinquanta non esisteva alcun antidepressivo efficace. Quando, negli anni cinquanta e sessanta, sono stati fortuitamente scoperti i primi antidepressivi, è diventato importante identificare quei pazienti che probabilmente avrebbero ottenuto beneficio da tali farmaci. A quei tempi, i criteri diagnostici della depressione miravano in parte a differenziare quei pazienti che avrebbero risposto ai nuovi antidepressivi (gli antidepressivi triciclici e gli inibitori delle monoaminossidasi [MAOI]) da quelli che avrebbero risposto ai nuovi ansiolitici anch'essi introdotti nello stesso periodo (le benzodiazepine). Perciò, si è arrivati al concetto che la depressione maggiore poteva essere clinicamente distinta dal disturbo d'ansia generalizzato (chiamato allora nevrosi ansiosa) e che ogni condizione aveva dei trattamenti specifici. In parte, gli iniziali criteri diagnostici erano impiegati nel tentativo di identificare una "sindrome benzodiazepino-sensibile" che differiva da una "sindrome sensibile agli antidepressivi triciclici".  torna a inizio capitolo

7.4 RICERCA DEI SOTTOTIPI DI DEPRESSIONE

Sebbene generalmente efficaci per la depressione, i primi antidepressivi non erano efficaci in tutti i soggetti depressi. Questa osservazione si applica a tutt'oggi, poiché solo 2 pazienti depressi su 3 risponderanno a un qualsiasi antidepressivo. Negli anni settanta e ottanta, i criteri diagnostici per la depressione hanno iniziato a focalizzarsi in parte sull'identificazione dei pazienti depressi maggiormente responsivi a ciascuno dei trattamenti antidepressivi resisi disponibili. Per esempio, il litio è risultato efficace per il sottotipo diagnostico di disturbo maniaco-depressivo e proprio in quegli anni è stato introdotto nella pratica clinica.
Durante questo periodo si è giunti all'idea che vi potessero essere due sottogruppi di depressioni unipolari, di cui uno, a differenza dell'altro, particolarmente sensibile agli antidepressivi. È stato ipotizzato che il primo gruppo fosse costituito da una grave forma clinica melanconica di depressione che aveva una base biologica, un'elevata incidenza familiare, che era di natura episodica e che presumibilmente avrebbe risposto agli antidepressivi triciclici e ai MAOI. In opposizione a questa, esisteva una seconda forma di depressione ritenuta di origine nevrotica e caratteriale, meno grave ma ad andamento cronico, non particolarmente sensibile agli antidepressivi e presumibilmente controllabile con la psicoterapia.
La ricerca di marker biologici (come il test di soppressione con desametasone) per un certo tipo di depressione su base biologica e che si presume sensibile al trattamento antidepressivo è stata sinora deludente. Varie teorie e ipotesi sono ancora in auge e verranno discusse più oltre. Tuttavia, non è ancora possibile predire chi risponderà o meno a un dato farmaco antidepressivo. Ciò che attualmente si sa è che le diverse caratteristiche cliniche della depressione non sono particolarmente utili per differenziare i pazienti responder da quelli non responder e che esse sono prive di ogni utilità diagnostica negli anni novanta. Queste includono biologico vs non biologico; endogeno vs reattivo; melanconico vs neurotico; acuto vs cronico; familiare vs non familiare; e altre ancora.  torna a inizio capitolo

7.4.1 EPIDEMIOLOGIA E DECORSO NATURALE

Negli anni novanta, i criteri diagnostici per la depressione hanno iniziato ad essere applicati in misura maggiore per descrivere l'epidemiologia e il decorso naturale della depressione cosicché gli effetti dei trattamenti potessero essere meglio misurati. Le domande chiave sono: Quali sono i fattori di rischio della depressione? Qual è l'incidenza del disturbo depressivo maggiore? Quanti soggetti presentano tale condizione al momento attuale e quanti durante la loro esistenza? I soggetti con depressione vengono identificati e trattati e, se sì, in che modo? E ancora, qual è il risultato del loro trattamento? Qual'è il decorso naturale della loro depressione senza trattamento e quale l'impatto della terapia sulla patologia? Quali sono i costi sommersi della depressione non trattata?
Le risposte a tutte queste domande non sono ancora del tutto disponibili. Per esempio, l'incidenza dei disturbi affettivi nella popolazione è approssimativamente del 5-6% (più di 12 milioni di individui negli USA), ma solo circa un terzo dei pazienti affetti è sotto trattamento. La depressione è una malattia socialmente debilitante quanto la malattia coronarica e più debilitante del diabete mellito o dell'artrite. Una percentuale che raggiunge il 15% dei pazienti gravemente depressi alla fine compirà un suicidio. I tentativi di suicidio sono circa 10 su 100 pazienti depressi per anno. Negli USA, per esempio, in un anno si registrano approssimativamente 300.000 tentativi di suicidio e 30.000 suicidi portati a termine, la maggior parte dei quali, se non la totalità, associata a depressione.
Le conclusioni sono impressionanti: la depressione è una malattia comune, debilitante, potenzialmente fatale, che può essere curata con successo, ma che di solito non viene trattata. Sono in corso tentativi, da parte delle organizzazioni pubbliche, per identificare tali casi e per trattarli efficacemente.  torna a inizio capitolo

7.5 DECORSO A LUNGO TERMINE DELLA DEPRESSIONE

Sino a poco tempo fa non si conosceva molto sul decorso naturale della depressione in assenza di trattamento. Si ritiene attualmente che la maggior parte degli episodi depressivi non trattati duri da 6 a 24 mesi. Forse solo nel 5-10% dei casi non trattati gli episodi continuano per più di 2 anni.
Vengono impiegati quattro termini per descrivere lo stato clinico dei pazienti depressi nel tempo. Questi sono le cosiddette "quattro R": remissione, ripresa funzionale (guarigione), ricaduta e recidiva. Essi vengono spesso confusi. I termini "remissione" e "ripresa funzionale" indicano ambedue che un paziente depresso ha avuto almeno un 50% di riduzione dei sintomi, come evidenziato dai test psicometrici standard (Hamilton Depression Scale). Ciò generalmente corrisponde anche a un punteggio clinico globale in cui il paziente è abbastanza migliorato o molto migliorato (non semplicemente lievemente migliorato). Talvolta il termine "remissione" viene interscambiato con "guarigione". Tuttavia, remissione si riferisce propriamente a un miglioramento che è durato meno di 2 mesi, mentre guarigione a un miglioramento che è durato più di 2 mesi.
Il termine "ricaduta" indica il ripresentarsi di un episodio depressivo durante i 2 mesi di miglioramento. Quindi la "ricaduta" compare durante la "remissione" e prima della "guarigione". Per contro, se un episodio di depressione si verifica dopo 2 mesi di miglioramento, esso viene detto "recidiva". Quindi la "recidiva" compare dopo la "guarigione".
Studi di follow-up di pazienti depressi dopo 1 anno mostrano che approssimativamente il 40% ha ancora la stessa diagnosi, il 40% non ha alcuna diagnosi e il restante 20% recupera parzialmente o sviluppa una diagnosi di distimia. La distimia è una forma di depressione lieve ma cronica che dura per più di 2 anni. Essa può rappresentare uno stato relativamente stabile e non remittente di depressione di grado lieve, oppure può indicare uno stato di guarigione parziale da un episodio di disturbo depressivo maggiore. Quando gli episodi depressivi maggiori si sovrappongono alla distimia, la condizione risultante è talvolta detta "depressione doppia" e può spiegare molti casi con scarsa guarigione tra gli episodi depressivi.  torna a inizio capitolo

7.6 TRATTAMENTO A LUNGO TERMINE DELLA DEPRESSIONE

Le linee guida per il trattamento a lungo termine dei pazienti con antidepressivi sono ancora in evoluzione, poiché i primi studi con tali farmaci hanno interessato solo il trattamento a breve termine di singoli episodi depressivi, e solo recentemente vi è stato il diffuso riconoscimento della cronicità e dell'elevato tasso di recidive del disturbo depressivo maggiore. Di conseguenza, l'attuale trattamento enfatizza il fatto che gli antidepressivi dovrebbero essere impiegati non solo per trattare gli episodi acuti, ma anche per tentare di prevenire i futuri episodi della malattia.
Stanno aumentando i trattamenti che cercano di ottenere la completa remissione dei sintomi, poiché gli studi in cui è stata ottenuta una guarigione appena parziale suggeriscono che, in tali casi, la probabilità di un episodio successivo è aumentata e che continuerà ad esservi una scarsa o parziale guarigione nei successivi episodi di depressione maggiore. Gli studi suggeriscono inoltre che il trattamento per il disturbo depressivo maggiore è più efficace all'inizio dell'episodio, prima che esso diventi cronico o recidivante. Questo è un aspetto oggi emergente per molti disturbi psichiatrici: cioè, che sintomi incontrollati possono indicare la persistenza di alcuni meccanismi fisiopatologici in atto nel cervello i quali, se non vengono trattati, possono determinare un peggioramento della malattia.
La depressione può causare depressione. La depressione può pertanto avere un effetto neuropatologico di lunga durata o irreversibile sul cervello; se tale effetto progredisce, il trattamento risulterà meno efficace rispetto a un trattamento sintomatologico iniziato all'esordio del decorso.
Gli studi con i farmaci antidepressivi tradizionalmente durano da 4 a 8 settimane. L'inizio dell'azione di tutti gli antidepressivi conosciuti richiede almento 2-4 settimane, mentre l'inizio dell'attività terapeutica delle benzodiazepine nel trattamento dell'ansia è spesso più precoce. Oltre a questa nozione di un ritardato inizio d'azione degli antidepressivi, tuttavia, gli effetti del trattamento su un paziente depresso dopo il primo o il secondo mese di terapia sono stati studiati solo recentemente. Si sa da lungo tempo che due su tre soggetti depressi "rispondono" (miglioramento del 50% o più) dopo un mese o due di trattamento con un qualsiasi agente antidepressivo. È interessante notare che uno su tre soggetti depressi risponde al placebo.
Se il trattamento antidepressivo viene interrotto entro il primo anno dopo la remissione, vi è una probabilità di circa il 50% che il paziente vada incontro ad un successivo episodio di depressione maggiore. Tuttavia, se la terapia antidepressiva viene continuata per un anno dopo la remissione, tale probabilità si abbassa al 10-15%. Le attuali linee guida terapeutiche raccomandano pertanto di trattare con un antidepressivo i pazienti al loro primo episodio di depressione maggiore sino alla remissione, e successivamente di continuare il trattamento per altri 6-12 mesi. Per i pazienti con multipli episodi pregressi di depressione maggiore o con una risposta inadeguata al trattamento, non vi sono ancora linee guida chiare per la durata del trattamento. Tuttavia, i tassi di recidiva possono essere anche maggiori in tali soggetti; di conseguenza, in casi selezionati, è possibile che sia necessario un trattamento della durata superiore all'anno o addirittura di durata indefinita, sino a quando, dalle ricerche future, non emergeranno linee guida più chiare.
Sebbene numerosi antidepressivi siano stati in grado di ridurre la ricaduta da un episodio indice di depressione entro i primi 6-12 mesi, non è ancora certo se gli antidepressivi possono continuare a funzionare nella profilassi contro la recidiva per più di 1 anno di terapia. Tali studi sono attualmente in corso, ma appare già prudente considerare la continuazione a lungo termine degli antidepressivi in coloro che hanno avuto diversi episodi di depressione e che rispondono bene ai farmaci antidepressivi quando sotto trattamento.
In termini di dosaggio da utilizzare nel trattamento a lungo termine per la prevenzione delle ricadute e delle recidive della depressione, una delle regole in clinica è stata che, per la terapia di mantenimento di durata indeterminata, la dose di antidepressivo impiegata nel trattamento iniziale per un paziente ospedaliero poteva essere ridotta della metà nel paziente ambulatoriale. Questo approccio non è mai stato validato da studi clinici controllati ed è ormai sorpassato dai risultati di nuovi studi con antidepressivi che mostrano che la dose impiegata per indurre la remissione è la stessa richiesta per mantenerla.
Le linee guida per il trattamento cronico stanno quindi iniziando a evolversi per i pazienti che rispondono bene ad un trattamento acuto con antidepressivi. Ma cosa accade a quelli che non rispondono per niente agli antidepressivi (i cosiddetti pazienti "refrattari al trattamento") o quelli che sono "non responder" (ossia, quelli che non presentano una remissione completa, o che hanno una riduzione dei sintomi inferiore al 50% o che migliorano solo lievemente e in modo non soddisfacente)? Sfortunatamente, i pazienti refrattari e non responder non vengono adeguatamente studiati, essendovi per loro linee guida terapeutiche non chiare e spesso risultati inadeguati. In pratica, i trattamenti per i pazienti depressi refrattari o non responder sono solitamente organizzati mediante numerosi algoritmi di vario tipo che implicano in prima istanza una sequenza di antidepressivi e quindi conbinazioni di antidepressivi. I diversi algoritmi per l'impiego degli antidepressivi nei pazienti refrattari e non responder si sono sviluppati più su base aneddotica che da studi sistematici negli anni e verranno discussi nel prossimo capitolo. Tuttavia, negli USA non esiste alcun protocollo approvato dalla FDA (Food and Drug Administration) per l'impiego degli antidepressivi in ambedue questi gruppi di pazienti.
In sintesi, la storia naturale della depressione indica che si tratta di una patologia che dura per tutta la vita, che probabilmente ricompare entro diversi mesi dall'episodio principale, specialmente se il trattamento antidepressivo viene interrotto, e che è soggetta a multiple recidive che possono essere prevenute grazie a un trattamento a lungo termine con antidepressivi.  torna a inizio capitolo

7.7 BASI BIOLOGICHE DELLA DEPRESSIONE

video introduttivo

7.7.1 IPOTESI MONOAMINERGICA

La prima e maggiore teoria sull'eziologia biologica della depressione ipotizzava che la depressione fosse dovuta a un deficit dei neurotrasmettitori monoaminergici, specialmente NE e 5-HT. Le sue evidenze erano piuttosto semplicistiche. Certi farmaci che provocavano la deplezione di questi neurotrasmettitori potevano indurre depressione, e gli antidepressivi conosciuti a quei tempi (i triciclici e i MAOI) avevano azioni farmacologiche che aumentavano questi neurotrasmettitori. Pertanto, l'idea era che le "normali" quantità di neurotrasmettitori monoaminergici venissero in qualche modo ridotte, forse da un processo patologico sconosciuto, dallo stress, o dai farmaci, determinando i sintomi della depressione. I MAOI aumentavano i neurotrasmettitori, causando un miglioramento della depressione dovuto all'inibizione delle MAO. Anche gli antidepressivi triciclici aumentavano i neurotrasmettitori, determinando un miglioramento della depressione dovuto al blocco dei trasportatori delle monoamine.  torna a inizio capitolo

7.7.2 NEURONI MONOAMINERGICI

Per capire questa ipotesi, è necessario in primo luogo capire il normale funzionamento farmacologico dei neuroni monoaminergici. I prinicipali neurotrasmettitori monoaminergici nel cervello sono le catecolamine NE e DA, e l'indolamina 5-HT.  torna a inizio capitolo

7.7.2.1 Neuroni noradrenergici.

I neuroni noradrenergici utilizzano come proprio neurotrasmettitore la noradrenalina. Per il neurone noradrenergico, questo processo inizia con la sintesi della noradrenalina. L'aminoacido precursore della NE, la tirosina, viene trasportato all'interno del sistema nervoso dal circolo ematico attraverso una pompa di trasporto attivo. Una volta all'interno del neurone, la tirosina viene trasformata mediante tre enzimi in sequenza: il primo è la tirosina idrossilasi (TOH), l'enzima più importante e limitante la regolazione della sintesi della NE. La tirosina idrossilasi converte l'aminoacido tirosina in DOPA. A questo punto agisce il secondo enzima, la DOPA decarbossilasi (DDC), che trasforma la DOPA in DA. La DA di per sé è un neurotrasmettitore in alcuni neuroni. Tuttavia, per i neuroni NE, la DA è soltanto il precursore della NE. Infatti, il terzo e ultimo enzima della sintesi di NE, la dopamina beta idrossilasi (DBH), converte la DA in NE. La NE viene quindi accumulata in pacchetti sinaptici detti vescicole sino a quando non viene rilasciata da un impulso nervoso.
La NE non viene solo sintetizzata dagli enzimi, ma può anche essere distrutta dagli enzimi (catabolismo della NE). I due principali enzimi catalitici agiscono sulla NE per trasformarla in metaboliti inattivi. Il primo è la MAO, che è localizzata sia nei mitocondri del neurone presinaptico che altrove. Il secondo è la catecol-O-metiltransferasi (COMT), che si ritiene sia localizzata soprattutto al di fuori della terminazione presinaptica.L'azione della NE può essere interrotta non solo dagli enzimi che la distruggono, ma anche ingegnosamente da una pompa di trasporto specifica che la rimuove dalla sinapsi senza distruggerla. Infatti, la NE così inattivata può essere riutilizzata più tardi in un successivo impulso nervoso. La pompa che interrompe l'attività sinaptica della NE viene talvolta chiamata "trasportatore per la NE" o "pompa per la ricattura della NE". Essa è selettiva per la NE e per nessun altro neurotrasmettitore. Questo sistema di ricattura della NE fa parte dell'armamentario presinaptico, dove agisce come un aspiratore che risucchia la NE al di fuori della sinapsi, lontano dai recettori sinaptici, interrompendone la sua azione sinaptica. Una volta all'interno del terminale presinaptico, la NE può essere ancora immagazzinata per un successivo utilizzo in occasione di un altro impulso nervoso, oppure può essere distrutta dagli enzimi che la catabolizzano.
Il neurone noradrenergico è regolato da una molteplicità di recettori per la NE. I sottotipi classici di recettori NE sono stati classificati come alfa o beta , a seconda della loro preferenza per una serie di agonisti o antagonisti. Successivamente, i recettori per la NE sono stati suddivisi nei sottotipi alfa1 e alfa2, e beta1 e beta2. Più recentemente, i recettori adrenergici sono stati ulteriormente suddivisi in base a differenze farmacologiche e molecolari.
Per una comprensione generale dei recettori NE, il lettore dovrebbe iniziare con il conoscere i due recettori chiave: il recettore postsinaptico beta1 e il recettore presinaptico alfa2. Vi sono inoltre i recettori postsinaptici beta2, alfa1 e alfa2, come pure ulteriori sottotipi di recettori adrenergici, ma questi per ora non verranno enfatizzati.
Il recettore presinaptico alfa2 è importante perché è un autorecettore. Vale a dire, quando il recettore presinaptico alfa2 riconosce la NE sinaptica, blocca il rilascio di NE. Poiché tale recettore è localizzato a livello della terminazione assonica, viene talvolta detto autorecettore terminale. L'autorecettore presinaptico alfa2 agisce pertanto come un freno per il neurone NE, conosciuto anche come segnale regolatorio a feedback negativo. La stimolazione di questo recettore (cioè il premere sul freno) interrompe l'attività elettrica del neurone. Questo probabilmente accade fisiologicamente per prevenire un'iperattività elettrica del neurone NE, poiché esso può "autospegnersi" una volta che l'attività è troppo elevata e l'autorecettore viene stimolato. Si noti che i farmaci possono non solo simulare il naturale funzionamento del neurone stimolando il recettore presinaptico alfa2, ma i farmaci che antagonizzano questo stesso recettore avranno l'effetto di tagliare i cavi del freno e aumentare il rilascio di NE.
Il recettore postsinaptico beta1 riconosce la NE liberata nella sinapsi e agisce per attivare una cascata molecolare a livello del neurone postsinaptico, facendo sì che la neurotrasmissione passi dal neurone presinaptico a quello postsinaptico.  torna a inizio capitolo

7.7.2.2 Neuroni dopaminergici.

I neuroni dopaminergici utilizzano come neurotrasmettitore la DA, che viene sintetizzata nelle terminazioni nervose dopaminergiche attraverso due dei tre enzimi che sintetizzano anche la NE. Tuttavia, i neuroni DA mancano del terzo enzima, cioè la dopamina beta idrossilasi, e quindi non possono convertire la DA in NE. È pertanto la DA che viene immagazzinata e utilizzata come neurotrasmettitore.
Il neurone DA ha un trasportatore presinaptico (pompa per la ricattura) che è specifico per la DA, ma che funziona analogamente a quello per la NE. Per contro, gli stessi enzimi che distruggono la NE catabolizzano anche la DA (MAO e COMT).
Anche i recettori per la dopamina regolano la neurotrasmissione dopaminergica. Esiste un gran numero di recettori dopaminergici, tra cui almeno cinque sottotipi farmacologici e diverse isoforme molecolari. Forse il recettore più ampiamente investigato è il recettore dopaminergico D2, che viene stimolato dagli agonisti dopaminergici per il trattamento del morbo di Parkinson e bloccato dagli antagonisti dopaminergici, neurolettici, per il trattamento della schizofrenia. I recettori dopaminergici possono essere presinaptici, dove funzionano come regolazione a feedback negativo, o postsinaptici, dove sono coinvolti nella neurotrasmissione dal neurone presinaptico a quello postsinaptico.  torna a inizio capitolo

7.7.2.3 Neuroni serotoninergici.

Nel neurone 5-HT esistono enzimi, trasportatori e recettori analoghi. Tuttavia, nei neuroni serotoninergici, per la sintesi della serotonina un diverso aminoacido, il triptofano, viene trasportato all'interno del cervello dal plasma per essere utilizzato come precursore della 5-HT. Due enzimi di sintesi convertono quindi il triptofano in serotonina: inizialmente la triptofano idrossilasi converte il triptofano in 5-idrossitriptofano (5-HTP) e, successivamente, l'aminoacido aromatico decarbossilasi trasforma il 5-HTP in 5-HT. Come la NE e la DA, anche la 5-HT viene catabolizzata dalla MAO e trasformata in metabolita inattivo. Anche il neurone 5-HT possiede un trasportatore presinaptico selettivo per la serotonina conosciuto come trasportatore per la serotonina, analogo al trasportatore per la NE nei neuroni NE e a quello per la DA nei neuroni DA.
I sottotipi di recettori per il neurone serotoninergico si sono moltiplicati molto velocemente, con almeno quattro principali categorie di recettori 5-HT, ciascuna ulteriormente suddivisa in sottotipi in base alle proprietà farmacologiche o molecolari. I recettori 5-HT sono un buon esempio di come la descrizione dei recettori per i neurotrasmettitori sia in continua trasformazione e sia costantemente rivista. Per una comprensione generale del neurone 5-HT, il lettore può iniziare con il capire che vi sono due recettori chiave presinaptici (5-HT1A e 5-HT1D) e diversi recettori postsinaptici (5-HT1A, 5-HT1D, 5-HT2A, 5-HT2C, 5-HT3 e 5-HT4), il più importante dei quali è forse il 5-HT2A, talvolta detto anche recettore 5-HT2.I recettori 5-HT presinaptici sono autorecettori; essi percepiscono la presenza della 5-HT e causano un'interruzione dell'ulteriore liberazione di 5-HT e dell'attività elettrica del neurone 5-HT. Quando la 5-HT viene percepita a livello dei dendriti e del corpo cellulare, ciò accade attraverso un recettore 5-HT1A, conosciuto anche come autorecettore somatodendritico. Ne consegue un rallentamento del flusso elettrico neuronale lungo il neurone serotoninergico. Quando la 5-HT viene percepita nella sinapsi dai recettori 5-HT presinaptici, ciò accade attraverso un recettore 5-HT1D, conosciuto anche come autorecettore terminale- analogo all'autorecettore alfa2 adrenergico della terminazione noradrenergica descritto precedentemente. Nel caso dell'autorecettore 5-HT1D, la sua occupazione da parte della 5-HT determina un blocco del rilascio del neurotrasmettitore. Al contrario, farmaci che bloccano l'autorecettore 5-HT1D possono favorire la liberazione di 5-HT.
I recettori 5-HT postsinaptici quali i recettori 5-HT2A regolano la conversione della liberazione di 5-HT dal neurone presinaptico in neurotrasmissione al neurone postsinaptico. Il recettore 5-HT2 (5-HT2A) viene caratterizzato soprattutto come un importante sottotipo di recettore 5-HT postsinaptico poiché esso è implicato nel meccanismo d'azione degli antidepressivi. Tuttavia, si sta imparando sempre di più sull'importanza dei recettori postsinaptici 5-HT1A e 5-HT2C, specialmente per il meccanismo di vari farmaci che agiscono sui neuroni 5-HT. Anche questi verranno discussi in maggior dettaglio più oltre.  torna a inizio capitolo

7.8 ANTIDEPRESSIVI CLASSICI E IPOTESI MONOAMINERGICA

I primi antidepressivi a essere scoperti derivavano da due classi di agenti: gli antidepressivi triciclici (così chiamati poiché la loro struttura chimica possiede tre anelli) e i MAOI (così chiamati perché inibiscono l'enzima catabolizzante MAO). Quando gli antidepressivi triciclici bloccano il trasportatore per la NE, essi aumentano la disponibilità di questo neurotrasmettitore nella sinapsi, poiché la pompa aspiratrice non può più spazzare via la NE dalla sinapsi. Quando gli antidepressivi triciclici bloccano la pompa per la DA o quella per la 5-HT, essi aumentano similmente la disponibilità sinaptica rispettivamente della DA o della 5-HT, e con lo stesso meccanismo. Quando i MAOI bloccano il catabolismo di NE, DA, e 5-HT, essi innalzano i livelli di questi neurotrasmettitori.
Sin da quando negli anni sessanta venne riconosciuto che tutti gli antidepressivi classici in un modo o nell'altro innalzavano NE, DA e 5-HT, l'idea in origine fu che l'uno o l'altro di questi neurotrasmettitori, conosciuti chimicamente come monoamine, potessero essere deficitari nella depressione. Nacque così l'"ipotesi monoaminergica". Un grande sforzo venne effettuato specialmente negli anni sessanta e settanta per identificare tali possibili deficit di neurotrasmettitori monoaminergici. Sfortunatamente, questi sforzi hanno portato sinora a risultati misti e talvolta confusi.
Alcuni studi suggeriscono che i metaboliti della NE sono ridotti in certi pazienti depressi, ma tale reperto non è stato osservato uniformemente. Altri studi suggeriscono che il metabolita della 5-HT, l'acido 5-idrossindolacetico (5-HIAA), è ridotto nel fluido cerebrospinale (CSF) dei pazienti depressi. A un esame più attento, tuttavia, bassi livelli di 5-HIAA nel CSF sono stati rilevati solo in alcuni dei pazienti depressi, che tendono peraltro a identificarsi con tentativi violenti di suicidio. Successivamente è stato inoltre riportato che i livelli di 5-HIAA nel fluido cerebrospinale sono ridotti in altre popolazioni soggette a violenti episodi di scarso controllo degli impulsi, ma che non erano depresse, vale a dire in pazienti asociali con disturbi della personalità che erano dei criminali, e in pazienti con disturbi borderline della personalità con comportamenti autodistruttivi. Pertanto, bassi livelli di 5-HIAA nel CSF possono essere più strettamente legati a problemi nel controllo degli impulsi, piuttosto che alla depressione.
Un altro problema con l'ipotesi monoaminergica è che determinati farmaci che aumentano le concentrazioni di monoamine non sono degli antidepressivi (p.es., cocaina), e altri che non sono in grado di aumentare i livelli di monoamine sono invece degli antidepressivi (p.es., iprindolo e mianserina). Forse la difficoltà principale dell'ipotesi monoaminergica è che gli effetti degli antidepressivi sui neurotrasmettitori sono temporalmente lontani dagli effetti degli stessi farmaci sull'umore. Ossia, gli antidepressivi innalzano immediatamente i livelli di monoamine, ma, come detto precedentemente, hanno un significativo ritardo nell'inizio della loro azione terapeutica, che compare infatti più giorni o diverse settimane dopo che essi hanno innalzato le monoamine. A causa di queste e di altre difficoltà, il fulcro dell'ipotesi per l'eziologia della depressione comincia a spostarsi dagli stessi neurotrasmettitori monoaminergici ai loro recettori.  torna a inizio capitolo

7.8.1 IPOTESI RECETTORIALE DELLA DEPRESSIONE

Questa teoria afferma che qualcosa sia alterato nei recettori per i principali neurotrasmettitori monoaminergici. In accordo con questa teoria, un'anomalia nel funzionamento dei recettori per i neurotrasmettitori monoaminergici porta quindi alla depressione. Tale alterazione dei recettori per i neurotrasmettitori può essere essa stessa dovuta a una deplezione di neurotrasmettitori monoaminergici.
La deplezione di neurotrasmettitori monoaminergici è già stata discussa come tema principale dell'ipotesi monoaminergica della depressione. Secondo l'ipotesi recettoriale della depressione, questo tema viene spostato di un ulteriore passo, vale a dire, la deplezione del neurotrasmettitore causa un'up-regulation compensatoria dei recettori neurotrasmettitoriali postsinaptici.
Mancano in generale le evidenze dirette di questa ipotesi, ma studi autoptici mostrano un aumentato numero di recettori 5-HT2 nella corteccia prefrontale di pazienti che hanno commesso suicidio. Studi indiretti sul funzionamento dei recettori nei pazienti con disturbo depressivo maggiore suggeriscono anormalità dei vari recettori neurotrasmettitoriali quando vengono utilizzati test neuroendocrini o tessuti periferici quali piastrine o linfociti. Le moderne tecniche molecolari stanno esplorando le anomalie dell'espressione genica dei recettori neurotrasmettitoriali e degli enzimi in famiglie con depressione, ma non hanno avuto ancora successo nell'identificare alterazioni molecolari.  torna a inizio capitolo